giovedì 22 ottobre 2009

Terzani, il film

Bellissimo articolo di Raffaele Palumbo sul Corriere Fiorentino di oggi sul film La fine è il mio inizio, in corso di costruzione ad Orsigna. Le parole giusto, il tono intimo, l'affetto per Tiziano Terzani, il silenzio rotto solo dal rumore delle castagne che cascano a terra. Bello. Lo riporto quasi integralmente, mentre l'originale lo puoi leggere qui.
Cinquanta persone lavorano, corro­no da una parte all’altra della scena, co­stumisti, truccatori, fonici, camera­man, e poi gli sceneggiatori, il produt­tore, il regista. E naturalmente gli attori, concentra­tissimi e dediti alla loro parte. Eppure, l’unico rumore che si sente è il cadere delle castagne dagli alberi. Le strade, nei dintorni dell’Orsigna (appennino pistoiese) sono un tappeto di ricci di castagne schiacciati dalle auto. Tante auto, una fila lungo il ciglio della stra­da che da Pracchia porta su. Sono cer­catori di funghi, il momento è perfetto e questa natura generosissima. Mario, il marito della Brunalba, ne ha trovati trenta chili. All’Orsigna si gira La fine è il mio ini­zio, il film tratto dal libro omonimo e postumo che Folco Terzani ha messo insieme dopo aver interrogato per tre mesi — i tre mesi prima della sua mor­te — il padre.
«Parlando del film con il produttore e con tutti quanti sono stati coinvolti nella fase pre­liminare — racconta Folco — a tutti è ve­nuto subito in mente in nome di Ganz, come se fosse l’unico a poter interpreta­re un film del genere». Già, un film del genere. Il produttore e con Folco co-sceneggiatore, ci scherza: «Abbiamo messo da parte le tradizionali regole della drammaturgia. In questo film non c’è conflitto, non accadono co­se particolari, non ci sono colpi di scena nè punti di rottura. È il dialogo tra un figlio e un padre, mentre quest’ultimo sta morendo. Un dialogo sulla vita e sul­l’imparare a morire e ad accettare la mor­te stessa, il grande tabù del nostro mon­do». Folco Terzani, che ha alle spalle stu­di ed esperienze cinematografiche fatte negli Stati Uniti dice: «C’è una bellezza del grande cinema, dei kolossal, del montaggio veloce e dei dialoghi brevi. E poi c’è un’altra bellezza, più profonda ed intensa, che arriva dalle cose intime, da un incontro con un vecchio in una ca­panna di notte che ti racconta cose inim­maginabili ». Accenna alle Upanishad, le sacre scritture induiste composte pro­prio da dialoghi, due persone sotto un albero. In Sanscrito, upa (vicino), ni (sot­to) e shad, (sedersi), ossia «sedersi vici­no ».
Con Bruno Ganz, letteralmente nei panni di Tiziano Terzani, seduto vicino c’è l’italiano Elio Germano che interpre­ta il figlio, l’attrice austriaca Erika Pluhar, la moglie Angela e Andrea Osvart, la figlia Saskia. Il contadino orsi­gnese Mario, quello dei funghi, è inter­pretato da Gianni Cavina. Tutto, le scene e gli altri personaggi, ruotano attorno al padre e al figlio, con una sceneggiatura essenziale e insieme con uno sforzo ed un impianto produttivo di grande livel­lo. Il set, all’Orsigna, è proprio al podere Il Contadino, casa Terzani, dove, nono­stante tutto, continua a regnare il silen­zio, in un’atmosfera serena e rilassata. Si gira una scena importante, dopo l’acquazzone che ha pulito il cielo. La lu­ce è abbagliante e il regista decide di ini­ziare molto presto. Si tratta di mettere mano ad una scena lunga ben dodici mi­nuti, un punto nodale del dialogo. L’at­tenzione e la concentrazione sono ai massimi livelli e l’arrivo in giardino di Bruno Ganz lo sottolinea. Ci chiedono non solo di non rivolgergli la parola per nessun motivo, ma soprattutto di non guardarlo, di non incrociare mai il suo sguardo. «È al­cuni mesi che vive in uno stato di concen­trazione totale — racconta Folco Terzani — non può essere distratto da niente e da nessuno». Sembra una precauzione ecces­siva, un po’ da star, fino a quando il fonico ci porge le cuffie e Ganz inizia a recitare. È vestito di bianco, la barba bianca che sembra Terzani senza fargli il verso, ha il respiro di un uomo che sta morendo e in­sieme una potenza espressiva da togliere il fiato. Va avanti tutta la mattina, ripetendo e ripetendo senza mai stancarsi le stesse battute. La mattina vola, ed ogni ripresa è un atto meticoloso con alle spalle una lun­ga preparazione. Per una scena sono state portate delle cornac­chie dalla Repubblica Ceca. Anche le lucerto­le sono state importa­te. «Il regista — rac­conta Limmer — teme­va che con l’approssi­marsi del freddo non le avremmo trovate».
Dall’interno della casa si sente spesso il frini­re di un grillo. Servirà per un’altra scena, per ora se ne sta chiuso in gabbia, dopo il viaggio che ha fatto per arriva­re dalla Germania. Il pranzo si svolge in comune, in una grande casa affittata dai vicini alla produ­zione. Roastbeef, sfor­mato di patate, caffè, acqua, niente alcool. Ganz mangia con gli al­tri, ma non rivolge la parola a nessuno. Tut­ti si comportano come se non esistesse. L’unico suo disturbo arriva quando il silen­zio, durante le riprese, viene rotto dal pas­saggio di una automobile. Il fonico scuote la testa, tutto si ferma per un minuto, poi le riprese ricominciano, non senza momen­ti di forte commozione. Come si commuo­ve il produttore al racconto dell’ultima sce­na. «Quando la moglie Angela mi ha chie­sto come avremmo risolto la questione le ho risposto che il libro si ferma un giorno prima della morte di Terzani. Allora — mi ha risposto — ti racconto io l’ultimo gior­no ». Le riprese si fermano al tramonto, niente luci artificiali. Insieme ad una note­vole quantità di materiali tecnologici, sui Tir dalla Germania arriva anche la birra. È per la sera, quando si accende un enorme barbecue e si smette di muoversi silenziosi e di bisbigliare e tutto intorno torna ad es­sere buio e poi silenzio.
Raffaele Palumbo

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